Deathmatch Becomes Her: Lo scontro Toyoda vs Kudo

Quante volte vi è capitato di sentire “il deathmatch wrestling è un mezzo per compensare le proprie scarse doti tecniche sul ring”? Troppe, vero? Avete ragione.

Guardo consapevolmente questo tipo di pro wrestling da oltre dieci anni e molte cose sono rimaste invariate: c’è chi è sempre pronto a puntare il dito, chi ti dice la sua basandosi sulla visione di un paio di match scarsi e di spot pericolosi – come se questi ultimi nella disciplina non esistessero anche senza l’ausilio di filo spinato, vetri, puntine e compagnia bella – e infine chi non si è ancora arreso al fatto che lo stile sia accettato in gran parte del mondo grazie ai suoi interpreti migliori.

Una cosa è certa: le donne, nel deathmatch wrestling, hanno sempre fatto la differenza. Ma andiamo con ordine.

Quello del 5 maggio 1996 non è stato il primo Death Match femminile in Frontier Martial-Arts Wrestling (o FMW, se preferite), ma è grazie alla performance mostrata dalle due worker coinvolte che tutt’oggi viene reputato il miglior match con le esplosioni di sempre e soprattutto la contesa femminile più bella della storia. Per questo ho deciso di parlarvene per introdurvi a quella che sarà la mia rubrica, ovvero uno spaccato su ciò che hanno dato e su ciò che offrono ancora al giorno d’oggi le donne nel professional wrestling più pericoloso che ci sia. 

Andiamo dunque subito a conoscere le partecipanti. 

Chi sono Megumi Kudo e Combat Toyoda?

La prima è la sfidante, Megumi Kudo: la considero ormai da anni la mia pro wrestler femminile preferita di sempre, se non dal punto di vista atletico e tecnico (non che anche quelle doti le manchino) quantomeno per la passione e l’emotività che si riesce a percepire in ogni suo incontro. Più una belle dame sans merci nel senso più letterale del termine che una damigella in pericolo, e quasi inconsciamente ispirata dalla nostra Loredana Berté, che quattordici anni prima di questa contesa cantò sul palco “Non sono una signora” vestita da sposa. Inutile specificare che sì, anche la Kudo fece lo stesso, e a sua volta Kasey Catal ha ripreso l’idea per il suo leggendario intergender “moglie contro marito” con Brandon Kirk in ICW No Holds Barred.

La seconda è Combat Toyoda: colonna portante della divisione femminie della FMW e non solo, atleta capace di tenere il passo dei mostri sacri del joshi wrestling già attivi da anni e soprattutto di spaventare persino la lottatrice più temibile grazie al suo aspetto stilistico quasi tribale e visivamente bellico per scelta. Non solo, ma Megumi Kudo è stata anche allieva al dojo della All Japan Women’s Wrestling (o AJW) e ne è uscita con tutte le carte in regola per far tremare le fondamenta della disciplina.

Le due sono dunque al massimo della loro popolarità, solo che questo è effettivamente l’ultimo match della Toyoda. Detto ciò, voglio porvi un altro quesito: avete presente quegli incontri finali in cui l’emotività è sì alle stelle, ma al tempo stesso si può percepire anche un sonoro grudge tra – let’s say – il vecchio ancora carismatico ed amatissimo dalla folla e il giovane impertinente che vuole semplicemente far andare avanti veloce l’orologio della storia della disciplina? Ecco, scordatevelo, qui non si parla di ritiri del genere. Già dalle immagini qui sotto potete ben percepire quale sia il mood della sfida.

Una grande posta in palio

Risulta dunque chiaro come tra le due ci sia un grande rispetto reciproco, con la Toyoda pronta a qualunque cosa per uscire vincitrice e fare da musa ispiratrice per tutta la spettacolare violenza e lo spirito combattivo che verrà dopo di lei uscendosene da campionessa; la Kudo, per conto proprio, senza tradire la benché minima emozione e risultando quindi eoni lontano dalla cattiveria tanto credibile quanto archetipica di una Akira Hokuto a caso, è consapevole dell’importanza di questa contesa e proprio per questo vuole vincerla e guadagnarne il massimo prestigio conseguente.

Di quale prestigio stiamo parlando, direte voi? Molto semplice: la cintura femminile FMW e quella WWWA, la cui fondazione è datata 1937, la cui prima detentrice fu nientepopodimeno che la mitologica Mildred Burke. Già da qui molte persone dovrebbero farsi un bagno di umiltà e riflettere sulla popolarità e l’importanza che queste letali stipulazioni hanno guadagnato per essere teatri di cotante importanti difese ed occasioni speciali.

Entriamo nel vivo del match

La tensione è alle stelle già dalle entrate: se conoscete un minimo il contesto, ovvero lo show d’anniversario della Frontier Martial-Arts Wrestling al Kawasaki Stadium e la federazione più in generale, i brividi verranno da soli. Se invece non siete familiari con tutto ciò, nessun problema, l’emozione sarà fortissima lo stesso. Proprio in merito a ciò, c’è da dire che rispetto a Megumi Kudo, Combat Toyoda non riesce proprio fisicamente a trattenere le lacrime e questo sarà un dettaglio importante pure per una figura terza all’interno di questa contesa. Ma ci arriveremo tra poco.

Il dettaglio che mi ha comunque sorpreso di più è la telecamera che, forse inconsciamente, trema mentre inquadra le due durante le presentazioni. Sarà pure una casualità, ma inserita in questo contesto fa davvero un effetto suggestivo.

La contesa, dunque, comincia, ed è fin da subito uno spettacolo. Il selling delle due alla potenza e al danno fatti dal durissimo striking rende il match tutto una vera e propria prova di resistenza e di furbizia; ogni colpo viene reso utile ai fini della storia, ogni sequenza è studiata nei minimi dettagli, ogni colpo sembra da KO, ogni presa al tappeto potenzialmente funzionale a non permettere all’avversaria di rialzarsi.

Però io so il motivo per cui siete qui: le esplosioni. Ebbene, ci stiamo per arrivare, ma prima una piccola premessa, che serve anche un po’ come introduzione basilare allo stile deathmatch e anche alla parte più femminile dello stesso: Takashi Sasaki, leggenda assoluta nel Sol Levante e trainer al dojo della FREEDOMS, dove attualmente si produce il miglior deathmatch wrestling del mondo, sottolineava in un episodio di “The Wrestlers” come la parte ultraviolenta venga immediatamente dopo le basi tecniche. In fondo, non si chiama solo deathmatch, ma deathmatch WRESTLING. Ecco perché il punto non è “Megumi Kudo finisce contro il filo spinato esplosivo”, ma “un Dropkick di Combat Toyoda colpisce l’avversaria così forte da mandarla contro la sua dolorosa sorte”. Non è solo un cambio di prospettiva, è un mutamento di visione. 

Dunque l’immagine della sposa designata del puroresu che finisce sulle corde contorcendosi per il dolore, quasi in una figurazione tanto androgina quanto poeticamente blasfema della Crocifissione, risulta doppiamente impattante a livello visivo, sia perché sono colpi che non ci si aspetterebbe di veder presi da una ragazza che non è poi il massimo della robustezza, sia per il maestoso preambolo che dà così a tutta l’azione del momento quel che serve per non essere dimenticata. La reazione della Kudo, tuttavia, non tarda ad arrivare e la cosa bella è vedere come per pareggiare l’impatto sull’exploding barbed wire poco prima subito dalla rivale la sposa designata del puroresu debba letteralmente eseguire una counter ad un Irish Whip della rivale. La schiena della Toyoda impatta contro il filo spinato e il comeback della sfidante è cominciato.

Ed è qui che la parte fortemente personale della contesa, se non eclissa quella tecnica, quantomeno riesce a tenerla al tappeto, perché le telecamere ci mostrano uno spaccato di cosa sia davvero il coinvolgimento emotivo nella disciplina quando il legit boss della FMW, Atsushi Onita – figura controversa sia per i motivi giusti che per quelli sbagliati – viene sorpreso a versare lacrime di commozione e preoccupazione per l’operato di una delle sue pupille prossima al ritiro. La figurazione quasi divina di Onita sia dentro che fuori dal ring, con tutte le contraddizioni che si porta dietro, non può far altro se non dare quel tocco di epicità in più a tutta la faccenda.

A questo punto la fase più statica del match ha inizio, ma ci sono due fattori a non renderla assolutamente noiosa e anzi a far sì che risulti inserita in maniera ottima nello script tecnico della contesa: il primo è il fatto che Megumi fa di tutto non tanto per risultare pulita nell’esecuzione quanto per dare un’effettiva efficacia visiva e fisica alle manovre; il secondo è l’innata abilità della Toyoda di vendere il dolore per le esplosioni e tutte le botte prese fino a quel momento, finanche a cadere nel bel mezzo di un Irish Whip che avrebbe dovuto teoricamente mandarla contro le cariche innescate. E poi, si salta dalla sedia: la campionessa afferra Megumi al volo dopo un tentativo fallito di attacco in corsa da parte di quest’ultima e per essere sicura di superare la sua velocità non si limita a lanciarla contro le cariche esplosive bensì porta indietro tutto il suo peso, sacrificando il suo proverbiale well being per prendersi un vantaggio sicuro sulla fin troppo forte avversaria. Il secondo silenzioso precedente all’impatto fa persino più rumore del boato in sé.

A parer mio è incredibile vedere come qui i ruoli si siano invertiti: Combat Toyoda disperata e Megumi Kudo fin troppo in controllo della situazione? Com’è possibile? Eppure succede ed è maledettamente credibile. Da qui il pro wrestling puro prende il sopravvento e le due si tirano addosso ogni possibile arma del loro arsenale, la Kudo esegue addirittura una Fire Thunder Driver – finisher di Onita – sull’avversaria, la quale però si rifiuta di star giù. Tuttavia, i glory days dell’allora campionessa giungono al termine quando Megumi la fa mettere definitivamente al tappeto con la sua più dura versione della futura Cop Killa.

Cosa ci lascia il match?

Questo è pro wrestling, ragazze e ragazzi. Due guerriere, due combattenti, due assolute maestre del ring, una delle quali prossima al ritiro, pronte a tutto per superare l’altra. L’ultraviolence viene integrato in maniera magistrale attraverso la qualità del lottato e soprattutto grazie ai sentimenti che questo contesto riesce ad innescare, con il picco massimo rappresentato di nuovo da Atsushi Onita intento a versare acqua sulle ferite delle due. Ci manca solo Samarithan dei Candlemass in sottofondo e poi si può andare tutti a casa… in lacrime.

Perché sì, questo match fa davvero piangere. Il coinvolgimento che si riesce a provare attraverso lo stesso non è assolutamente niente di meno da quello che si sente dire da molti “smanettoni”. Chiunque dovrebbe vedere questo incontro, proprio perché rappresenta quell’anello di congiunzione tra pericolosità e qualità, tra rischio e ricompensa, tra dolore e gloria. Il tutto senza mai ricadere nell’inutile retorica dell’emancipazione.

Sapete perché? Perché col deathmatch wrestling, soprattutto se fatto da donne, l’emancipazione è un concetto superato. Forse i loro colleghi maschi si sarebbero dovuti fermare e chiedersi quanto duramente avrebbero dovuto lavorare per emanciparsi a propria volta e contare qualcosa in un mondo di qualità messo in piedi e tenuto su dal coraggio e dalle sopraffine abilità di queste ragazze.

Sono supposizioni e punti di vista, certo, ma le emozioni, per quanto astratte, son state vere, sia al Kawasaki, che da casa.

Combat Toyoda vs Megumi Kudo allo stadio più famoso della storia della Frontier Martial-Arts Wrestling e non solo è un capolavoro intramontabile, il perfetto inizio per chi vuole cimentarsi nel recupero e godimento del deathmatch wrestling fatto da donne e un punto cardine nella storia di questa promotion, tanto importante da esser stato inserito da Bahu – storico ufficialmente non ufficiale della federazione – al primo posto nella classifica dei migliori cento incontri della storia della FMW. 

Siete ancora qua a leggere? Male, correte a vederlo.

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Donne Tra Le Corde non detiene nessun diritto su i marchi, immagini e loghi riferiti alle federazioni citate in questo articolo. Non detiene nessun diritto su i marchi, immagini e loghi riferiti alle lottatrici citate in questo articolo e da i credits a alle federazioni per le immagini in questo articolo. L’articolo è stato scritto e curato da Francesco Pozzi, scrittore di Donne Tra Le Corde. Editing e revisione di Rachele Gagliardi e Irene Zordan.

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